“Emanuela Orlandi ricordo che aveva un flauto Yamaha e non un flauto Rampone&Cazzani. Lo ricordo perché a volte mi sono esercitato a suonare con lei. Oltretutto i Rampone&Cazzani a quell’epoca erano considerati tra i peggiori sul mercato, perciò alla scuola di musica le sarebbe stato sconsigliato di acquistarlo.
“Emanuela per il flauto non aveva una passione particolare, ma era abbastanza brava da sapere e rendersi conto che lo Yamaha, oltretutto consigliato anche dal Da Victoria, era meglio dell’altro e lei non era tipo da mettersi a studiare e suonare con un flauto che allora era diciamo di serie B.
“Mi pare che lo Yamaha di Emanuela Orlandi fosse del tipo nikelato, non argentato. Lo si capisce del resto anche dalle foto, nelle quali il flauto appare scuro, se invece fosse stato argentato apparirebbe più chiaro. L’astuccio dello strumento di Emanuela inoltre non mi pare quello mostrato in tv, perché se ben ricordo quello della Orlandi aveva una comoda maniglia di pelle o di plastica rigida per tenerlo in mano come una borsa o una valigetta. E il panno interno non lo ricordo rosso, ma del colore usato per le custodie degli Yamaha”.
A parlare è un ex compagno di corso di Emanuela Orlandi, che ancora oggi suona il flauto e ha seguito con interesse e curiosità tutta la strana vicenda del flauto fatto trovare a “Chi l’ha visto?“, decidendosi infine a contattarmi per dire la sua.
L’ex studente del Da Victoria, che per ora chiameremo Giovanni, fa ulteriormente dubitare della credibilità della “scoperta del flauto come quello di Emanuela Orlandi“, aggiungendo una osservazione della cui importanza non si rende però conto:
“E’ molto strano che dallo strumento mostrato in televisione manchino l’asticella e il tampone o il panno, che a quell’epoca non erano di tessuto artificiale, usati per pulire il flauto. Per pulirlo all’interno e in particolare il beccuccio anche all’esterno, oltre che all’interno, per asciugarne bene tutta la saliva e la condensa del fiato.
“Chi suona il flauto sa infatti che deve asciugarlo ogni volta che lo usa e che per evitare inizi di ossidazioni deve farlo non oltre dieci minuti dalla fine di ogni singolo utilizzo. Gli insegnanti su questo sono sempre tassativi. Poi magari lo si lava anche a casa, ma dopo averlo pulito subito già a scuola a fine lezione.
“Specie se poi si ha, come Emanuela quel maledetto 22 giugno, un’altra ora di lezione, di canto corale, e poi anche una mezz’ora per arrivare a casa. Si trova un flauto ovviamente privo del necessario per pulirlo se lo si compra usato, perché nessuno ama panni e tamponi con saliva altrui, così come al ristorante non si usano tovaglioli già usati da estranei. Ma se poi non si compra anche il necessario per la pulizia, che ogni flautista porta sempre con sé nell’astuccio, allora significa che lo strumento acquistato non lo si è utilizzato per suonare. Magari lo si acquista come pezzo di modernariato, forse da collezione, da tenere in salotto o nel proprio studio, ma certo non per usarlo suonando”.
L’osservazione di Giovanni è importante perché si presta a un ben precisa considerazione, che già circola negli ambienti della polizia scientifica. Se nell’astuccio del flauto di “Chi l’ha visto?” ci fosse stato anche il panno o il tampone per la pulizia allora i rimasugli di saliva avrebbero reso possibile, anche dopo 30 anni, determinare un Dna.
Poiché però il panno manca, per il Dna ci si deve affidare solo ed esclusivamente al beccuccio e alla parte interna dello strumento o sperare in cellule epiteliali e tracce di sudore nella stoffa interna dell’astuccio. Che essendo di plastica non liscia, ma crespata e rugosa, non permette purtroppo le impronte digitali.
Ma anche se il flauto fosse davvero quello di Emanuela Orlandi è ben difficile che il beccuccio e il resto dello strumento presentino tracce di saliva e condensa del fiato, dal momento che – stando a quanto fa notare non solo Giovanni, ma qualunque buon suonatore di strumenti a fiato – è pressoché certo che Emanuela finita la lezione lo abbia accuratamente pulito.
Visto anche che dopo aveva un’ora di lezione di canto corale e infine due autobus, il 70 e il 64, da aspettare alle rispettive fermate e prendere. In totale, poco meno di un paio d’ore prima di poterlo pulire a casa.
Cosa succederebbe nel caso non fosse possibile estrarre profili di un Dna dal flauto di “Chi l’ha visto?”?. Succederebbe che resterebbe il sospetto che possa trattarsi davvero di quello di Emanuela Orlandi. Sospetto che verrebbe coltivato ad arte da chi ha tutto l’interesse – ormai fin troppo evidente – che questa vicenda prosegua all’infinito.
Che continui cioè a suscitare attenzione, clamori periodici, depistaggi e benefici per l’audience. Almeno fino a quando la magistratura non si deciderà a vedere chiaro nella proliferazione di piste “decisive”, in realtà nate già morte. E a volte tenute in vita vegetativa con l’alimentazione forzata e l’accanimento terapeutico.
Ecco perché, se il flauto fatto trovare risultasse privo di tracce utili per tracciare un Dna, è legittimo soprattutto il sospetto che si tratti dell’ennesimo bidone.
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